11.7.10
Frammenti di vita quotidiana: Sarajevo
A pochi passi dall'Holiday Inn, l'albergo dove si accalcavano i giornalisti in cerca di foto sensazionali, sul corso principale Marsala Titova che collega le modernissime Unitic Towers con Bascarsija, un gruppetto di persone si attarda a parlare animatamente davanti alla Cattedrale cattolica che si prepara alle festività in un clima decisamente natalizio. Nella zona austroungarica nel frattempo il muezzin chiama a raccolta i fedeli per la preghiera della sera nella vicina Moschea Ferhad Begova e il suono si confonde pacificamente con quello delle campane della Chiesa ortodossa, accanto alla Sinagoga.
La conversazione ha il ritmo di un'eruzione vulcanica, si accende esplodendo in esclamazioni di vera e propria rabbia e si placa con fiumi di parole incandescenti. L’oggetto della discussione sembra molto importante: nonostante il freddo glaciale e il calar della sera nessuno accenna a volersi incamminare verso i rispettivi luoghi di culto o verso il primo locale per sedersi davanti ad un tradizionale caffè e vedere di risolvere la questione in modo piano e civile, ovvero assaporando lokum imbevuti nel bosanski kafa. I bambini giocano a guardie e ladri con i poliziotti che tentano invano di inseguirli sullla piazza ghiacciata, e il gruppo sembra avere un fremito.
‘Vidi, vidi… Dragomir, Ahmed, Peter U KUCI!’
L’imperioso e inconfondibile urlo di una madre balcanica che impone ai piccoli incoscienti e ribelli di rientrare a casa non tanto per rispetto nei confronti della polizia, che qui ha un potere molto relativo, quanto per scampare al pericolo reale.
Il fiume di lava si ingrossa, ora le voci di donne si fanno più forti, non è possibile proseguire oltre, qualcosa bisogna fare.
Come in tutte le città di montagna, anche a Sarajevo la prima neve è salutata con un brivido di piacere che prelude al divertimento, gli appassionati trascorrono i primi weekend negli impianti sciistici che riaprono per la gioia di grandi e piccini e il corso cittadino si riempie di amici dai paesi circostanti venuti a trascorrere un fine settimana sulle piste. Snowboards, sci e abbigliamento sportivo campeggiano nelle vetrine dei negozi e non è infrequente imbattersi in vere e proprie gare in pieno stile neorealista tra ‘guardie’ in uniforme e ‘ladri’, ragazzini che si divertono a lanciare palle di neve agli autobus gialli su cui troneggia la scritta ‘Japan’, davanti alla Dom Armjie. Qui in inverno non è difficile vedere gli anziani giocare in piazza con gli scacchi giganti, tra donne in hijab, che insieme ai veli griffati sono comparsi sempre più numerosi nella capitale bosniaca, e musulmane in vertiginosi tacchi a spillo che sfidano le leggi di gravità più elementari con una straordinaria abilità da equilibriste. I caffé dove riscaldarsi e prendere un infuso di ibisco, una centrifuga di frutta o fare l’aperitivo con del buon vino e degli ottimi affettati di manzo sono sempre pieni di persone del luogo e di stranieri delle forze internazionali di stanza nei Balcani.
Il freddo pungente non sembra aver alcun effetto calmante sul gruppetto e la discussione diventa sempre più incandescente, le voci sovrastano le spensierate programmazioni di weekend montani e le conversazioni impegnate su arte, cinema, filosofia, politica e moda. Molti si dirigono verso Jahorina, a Sud Est di Sarajevo, a metà tra il territorio della Republika Srpska e la Federazione della Bosnia Erzegovina; dove si sono svolte le gare femminili delle Olimpiadi invernali nel 1984, molte strutture sono ben funzionanti e oggi è una meta ambita per gli amanti dei fuori pista in snow-board, magari facendo attenzione a non andare nelle zone minate. Altri preferiscono la vicina Bjelašnica, 2067 metri sul livello del mare, nota agli sciatori per l’oro olimpico dell’americano Bill Johnson. Queste montagne hanno molte storie da raccontare, ma i sarajevesi hanno una gran voglia di dimenticare gli orrori del recente passato e godere ogni singolo attimo della propria vita. Forse è per questo che si dice che bastano due bosniaci in una stanza per avere una festa, forse il mix di culture a 30 gradi sotto lo zero, fatto sta che nelle montagne che circondano Sarajevo è ora possibile, finalmente, trascorrere delle settimane bianche all’insegna del divertimento.
Lo spirito di avventura è ovviamente un ingrediente necessario per poter godere appieno delle piste innevate.
Non per gli impianti, però, che sono rodati e perfettamente funzionanti. Né tantomeno per le piste, che pure sono piuttosto impegnative; o per gli alloggi - che vanno dai romanticissimi chalet immersi nella foresta a pochi metri dalle piste di Jahorina, agli alberghi per famiglie numerose di Bjelašnica, fino alle moderne strutture alberghiere della vicina Sarajevo, in cui ci si può anche lasciare andare allo sfizio dormire nel quartiere ottomano per mille e una notte in versione contemporanea e sotto un manto di neve resa brillante dalle mille luci delle celebrazioni delle festività cattoliche, musulmane, ortodosse, ebraiche. Il coraggio ci vuole per camminare nelle strade pedonali e sui marciapiedi.
Anche se i cecchini non prendono più di mira i passanti e le granate hanno smesso da tempo di terrorizzare la città, quando ci si avventura nell’allegro caos sarajevese si deve stare veramente attenti a non camminare, come verrebbe spontaneo quando piove o nevica, sotto i cornicioni o vicino ai palazzi. Le precipitazioni atmosferiche a Sarajevo causano anche un fenomeno particolare che ad un primo sguardo fa pensare ad una catarsi di massa richiamata dal brillio delle nevi.
Dopo anni di assedio, in cui una passeggiata in mezzo alla via equivaleva ad un vero e proprio suicidio, farsi volontariamente preda della follia casuale dei proiettili dei cecchini, i sarajevesi si ammassano nel centro delle strade per senso di liberazione, per sfida, per sentimento di rivalsa, potrebbe pensare lo sprovveduto turista e ovviamente il fenomeno c’è ma non ha nulla a che vedere con la catarsi collettiva.
Come spesso accade la spiegazione è molto più semplice e pratica: dai cornicioni dei palazzi piovono lastroni di ghiaccio grandi quanto un’automobile, che a volte, ovviamente, uccidono o feriscono gli ignari e increduli passanti.
Ed è proprio questo l’argomento di cui discute così animatamente il gruppetto di persone davanti alla Cattedrale del Sacro Cuore di Sarajevo.
In città i paraneve sono andati distrutti durante la guerra, insieme al palazzo della Presidenza, alla Biblioteca, alle case e a quel magico equilibrio di culture che sta rendendo possibile una ricostruzione dopo gli orrori della pulizia etnica. Ne esistono di vari tipi, con decorazioni fantasiose o con i disegni tradizionali, a forma di goccia rovesciata o a pettine, nei colori più vari, verdi, neri o bruniti. Decorano i tetti delle case del Nord, dei paesini che ci fanno immancabilmente pensare al presepe di Natale: ma in realtà sono quell’indispensabile strumento che consente ad abitanti e visitatori di godere appieno delle gioie di un inverno tradizionale. A Sarajevo, però, insieme alle mine antiuomo tarate sul peso di un bambino di 4 anni che ancora infestano il territorio circostante, sono uno dei principali pericoli di morte e mutilazione.
Camminare per le strade della Parigi dei Balcani, nonostante l’allegria, il calore umano e la straordinaria ricchezza paesaggistica, è ancora oggi una questione delicata, non piovono granate ma lastroni di ghiaccio di 4 o 5 metri in caduta libera da palazzine di sei piani.
©©Valentina Cosimati
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