16.7.10

 

Borgo Festival, Fiano Romano's fringe

Fiano Romano * Visioni, Provincia di Roma * Visions, Rome Province



A Fiano Romano per qualche giorno, dal 15 al 19, sembrerà di essere ad Edimburgo, durante i giorni caotici del fringe festival, il carnevale laico e un po' anarchico delle arti performative per eccellenza. Il Borgo Festival ha aperto le danze all'insegna dello slogan 'Una risata vi seppellirà' con brass bands, trampolieri e fuochi d'artificio che hanno accompagnato il pubblico all'interno del Castello Orsini, animando le vie del borgo medievale, per celebrare la folle meraviglia del ridere.

Una risata vi seppellirà è il tema di un'iniziativa che ormai si ripete da alcuni anni, coinvolgendo un numero imprecisato di compagnie e artisti che si avvicendano all'interno del suggestivo centro storico e dell'imponente Castello Ducale, attraversando epoche storiche, dal MedioEvo all'era moderna, passando per l'Umanesimo e il Rinascimento.

Brass bands, trampolieri, giocolieri e fuochi d'artificio introducono al cortile in cui "si fondono la forza bellicosa del Mastio con l'eleganza del doppio ordine di archi a tutto sesto sormontati dalla bianca scalea che conduce spiega Antonella Ciccalese - al piano nobile della residenza ursinea mollemente adagiata al caldo sole di mezzogiorno", e dove si può gustare un piatto della tradizione culinaria locale annaffiandolo con un bicchiere di vino prodotto nelle splendide campagne circostanti, prima di iniziare il percorso tra sale affrescate e comunicanti per rivivere, almeno per qualche giorno e con l'ausilio di un pizzico di fantasia, i fasti delle manifestazioni medievali e rinascimentali.

Dalla terrazza cinta da merli guelfi che introduce all'ala quattrocentesca si possono ammirare, oltre al panorama collinare tipicamente centroitaliano, danze caraibiche e azioni performative che coinvolgono gli spettatori per guidarli fin dentro l'ala costruita da Niccolò Orsini nel 1493 dove è possibile assistere a spettacoli di flamenco in forma quasi privata (gli spettatori entrano a turno, con un numero massimo di venti persone, importante prenotare all'ingresso), si passa attraverso un incontro ravvicinato con burattini un po' intristiti per poi assistere a performance di danza contemporanea e balletto. Concerti e spettacoli teatrali si avvicendano nel palco sottostante e tra danze, fuochi d'artificio, trampolieri e giocolieri, burattinai, artigiani, attori, musicisti, comici e tanti bambini si può ben sorridere e immergersi nel mondo della fantasia per qualche ora, ammirando produzioni artigianali tra le stanze di un castello ducale a pochi chilometri da Roma.

©© Valentina Cosimati

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11.7.10

 

Frammenti di vita quotidiana: Sarajevo


A pochi passi dall'Holiday Inn, l'albergo dove si accalcavano i giornalisti in cerca di foto sensazionali, sul corso principale Marsala Titova che collega le modernissime Unitic Towers con Bascarsija, un gruppetto di persone si attarda a parlare animatamente davanti alla Cattedrale cattolica che si prepara alle festività in un clima decisamente natalizio. Nella zona austroungarica nel frattempo il muezzin chiama a raccolta i fedeli per la preghiera della sera nella vicina Moschea Ferhad Begova e il suono si confonde pacificamente con quello delle campane della Chiesa ortodossa, accanto alla Sinagoga.

La conversazione ha il ritmo di un'eruzione vulcanica, si accende esplodendo in esclamazioni di vera e propria rabbia e si placa con fiumi di parole incandescenti. L’oggetto della discussione sembra molto importante: nonostante il freddo glaciale e il calar della sera nessuno accenna a volersi incamminare verso i rispettivi luoghi di culto o verso il primo locale per sedersi davanti ad un tradizionale caffè e vedere di risolvere la questione in modo piano e civile, ovvero assaporando lokum imbevuti nel bosanski kafa. I bambini giocano a guardie e ladri con i poliziotti che tentano invano di inseguirli sullla piazza ghiacciata, e il gruppo sembra avere un fremito.

‘Vidi, vidi… Dragomir, Ahmed, Peter U KUCI!’

L’imperioso e inconfondibile urlo di una madre balcanica che impone ai piccoli incoscienti e ribelli di rientrare a casa non tanto per rispetto nei confronti della polizia, che qui ha un potere molto relativo, quanto per scampare al pericolo reale.

Il fiume di lava si ingrossa, ora le voci di donne si fanno più forti, non è possibile proseguire oltre, qualcosa bisogna fare.

Come in tutte le città di montagna, anche a Sarajevo la prima neve è salutata con un brivido di piacere che prelude al divertimento, gli appassionati trascorrono i primi weekend negli impianti sciistici che riaprono per la gioia di grandi e piccini e il corso cittadino si riempie di amici dai paesi circostanti venuti a trascorrere un fine settimana sulle piste. Snowboards, sci e abbigliamento sportivo campeggiano nelle vetrine dei negozi e non è infrequente imbattersi in vere e proprie gare in pieno stile neorealista tra ‘guardie’ in uniforme e ‘ladri’, ragazzini che si divertono a lanciare palle di neve agli autobus gialli su cui troneggia la scritta ‘Japan’, davanti alla Dom Armjie. Qui in inverno non è difficile vedere gli anziani giocare in piazza con gli scacchi giganti, tra donne in hijab, che insieme ai veli griffati sono comparsi sempre più numerosi nella capitale bosniaca, e musulmane in vertiginosi tacchi a spillo che sfidano le leggi di gravità più elementari con una straordinaria abilità da equilibriste. I caffé dove riscaldarsi e prendere un infuso di ibisco, una centrifuga di frutta o fare l’aperitivo con del buon vino e degli ottimi affettati di manzo sono sempre pieni di persone del luogo e di stranieri delle forze internazionali di stanza nei Balcani.

Il freddo pungente non sembra aver alcun effetto calmante sul gruppetto e la discussione diventa sempre più incandescente, le voci sovrastano le spensierate programmazioni di weekend montani e le conversazioni impegnate su arte, cinema, filosofia, politica e moda. Molti si dirigono verso Jahorina, a Sud Est di Sarajevo, a metà tra il territorio della Republika Srpska e la Federazione della Bosnia Erzegovina; dove si sono svolte le gare femminili delle Olimpiadi invernali nel 1984, molte strutture sono ben funzionanti e oggi è una meta ambita per gli amanti dei fuori pista in snow-board, magari facendo attenzione a non andare nelle zone minate. Altri preferiscono la vicina Bjelašnica, 2067 metri sul livello del mare, nota agli sciatori per l’oro olimpico dell’americano Bill Johnson. Queste montagne hanno molte storie da raccontare, ma i sarajevesi hanno una gran voglia di dimenticare gli orrori del recente passato e godere ogni singolo attimo della propria vita. Forse è per questo che si dice che bastano due bosniaci in una stanza per avere una festa, forse il mix di culture a 30 gradi sotto lo zero, fatto sta che nelle montagne che circondano Sarajevo è ora possibile, finalmente, trascorrere delle settimane bianche all’insegna del divertimento.

Lo spirito di avventura è ovviamente un ingrediente necessario per poter godere appieno delle piste innevate.

Non per gli impianti, però, che sono rodati e perfettamente funzionanti. Né tantomeno per le piste, che pure sono piuttosto impegnative; o per gli alloggi - che vanno dai romanticissimi chalet immersi nella foresta a pochi metri dalle piste di Jahorina, agli alberghi per famiglie numerose di Bjelašnica, fino alle moderne strutture alberghiere della vicina Sarajevo, in cui ci si può anche lasciare andare allo sfizio dormire nel quartiere ottomano per mille e una notte in versione contemporanea e sotto un manto di neve resa brillante dalle mille luci delle celebrazioni delle festività cattoliche, musulmane, ortodosse, ebraiche. Il coraggio ci vuole per camminare nelle strade pedonali e sui marciapiedi.

Anche se i cecchini non prendono più di mira i passanti e le granate hanno smesso da tempo di terrorizzare la città, quando ci si avventura nell’allegro caos sarajevese si deve stare veramente attenti a non camminare, come verrebbe spontaneo quando piove o nevica, sotto i cornicioni o vicino ai palazzi. Le precipitazioni atmosferiche a Sarajevo causano anche un fenomeno particolare che ad un primo sguardo fa pensare ad una catarsi di massa richiamata dal brillio delle nevi.

Dopo anni di assedio, in cui una passeggiata in mezzo alla via equivaleva ad un vero e proprio suicidio, farsi volontariamente preda della follia casuale dei proiettili dei cecchini, i sarajevesi si ammassano nel centro delle strade per senso di liberazione, per sfida, per sentimento di rivalsa, potrebbe pensare lo sprovveduto turista e ovviamente il fenomeno c’è ma non ha nulla a che vedere con la catarsi collettiva.

Come spesso accade la spiegazione è molto più semplice e pratica: dai cornicioni dei palazzi piovono lastroni di ghiaccio grandi quanto un’automobile, che a volte, ovviamente, uccidono o feriscono gli ignari e increduli passanti.

Ed è proprio questo l’argomento di cui discute così animatamente il gruppetto di persone davanti alla Cattedrale del Sacro Cuore di Sarajevo.

In città i paraneve sono andati distrutti durante la guerra, insieme al palazzo della Presidenza, alla Biblioteca, alle case e a quel magico equilibrio di culture che sta rendendo possibile una ricostruzione dopo gli orrori della pulizia etnica. Ne esistono di vari tipi, con decorazioni fantasiose o con i disegni tradizionali, a forma di goccia rovesciata o a pettine, nei colori più vari, verdi, neri o bruniti. Decorano i tetti delle case del Nord, dei paesini che ci fanno immancabilmente pensare al presepe di Natale: ma in realtà sono quell’indispensabile strumento che consente ad abitanti e visitatori di godere appieno delle gioie di un inverno tradizionale. A Sarajevo, però, insieme alle mine antiuomo tarate sul peso di un bambino di 4 anni che ancora infestano il territorio circostante, sono uno dei principali pericoli di morte e mutilazione.

Camminare per le strade della Parigi dei Balcani, nonostante l’allegria, il calore umano e la straordinaria ricchezza paesaggistica, è ancora oggi una questione delicata, non piovono granate ma lastroni di ghiaccio di 4 o 5 metri in caduta libera da palazzine di sei piani.

©©Valentina Cosimati

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9.7.10

 

Frammenti di vita quotidiana: Sderot, Israele


A Sderot, a meno di un chilometro dalla Striscia di Gaza e ad un’oretta di macchina da Tel Aviv o Gerusalemme, viene nostalgia del traffico, di quella spensierata frenesia quotidiana che si respira nella Vecchia Europa o nel Nuovo Continente. Il rumore snervante dei clacson e dei motorini con la marmitta scassata qui ha lasciato il passo ad un suono penetrante, improvviso, ogni volta imprevisto e imprevedibile. Un suono che inonda tutta la vallata e i territori circostanti, fa salire freddi brividi lungo la schiena. Preannuncia una pioggia di missili lanciati contro i civili impegnati a vivere, dormire, portare i figli a scuola, fare la spesa. Sderot è una piccola cittadina di emigranti, quasi tutti di religione ebraica, giunti in Israele alla ricerca di un luogo sicuro, molti provengono dall’ex Unione Sovietica e sono arrivati con l’ondata migratoria degli anni ’90. La loro vita ora è scandita dall’allarme rosso, il suono che riempie il Negev, lanciato dal sistema di rilevamento ‘Alba Rossa’. Lo stomaco si stringe in un pugno di nervi e istinto di sopravvivenza. Comincio a contare: [1] Migliaia di gambe e occhi corrono, si nascondono, cercano rifugio, migliaia di cuori battono all’unisono in un’ordinata fuga verso la vita. Il pericolo maggiore è aggirarsi per le strade in macchina, inutile dire che è difficile vedere biciclette, tricicli o pattini a rotelle in questo angolo di mondo. [2] L’attacco arriva improvviso. I missili non sono ‘intelligenti’, fanno parte di quello che, con una buona dose di cinismo, si potrebbe definire ‘artigianato locale’. Per lo più si tratta di kassam - tubi di ferro lunghi poco più di un metro, con un diametro di circa 10 cm e uno spessore di non più di 3 [3] cm, quattro ali saldate evidentemente a mano con una saldatrice comune, una di quelle per il bricolage va benissimo. La struttura non garantisce una stabilità di volo, non si può prevedere dove andranno a colpire, per cui vengono riempiti con tutto quello che si ha sottomano, chiodi, bulloni, ferraglia [4] molta sabbia e un po’ di polvere da sparo. Quando esplodono non colpiscono un bersaglio ma si sparpagliano in tanti frammenti in modo da ferire il numero maggiore di civili. Una donna con jeans, polo bianca, occhiali griffati e scarpe comode sta accompagnando un gruppo di bambini di diverse nazionalità [5] alla fermata dell’autobus. I kassam vengono lanciati principalmente la mattina, tanto per mantenere vivi quei frammenti di memoria di normalità. Il ricordo delle corse per arrivare in tempo a scuola o in ufficio riaffiora inevitabilmente alla mente. La fermata dell’autobus è un luogo sicuro, un rifugio [6] dove correre per ripararsi dalla pioggia di missili dopo aver sentito un potente tuono che scuote famiglie intere dal torpore del tran tran quotidiano. Il rischio è che uno di quei pezzi di ferraglia raggiunga un organo vitale [7] o magari non vitale, un occhio, una gamba, la milza. Meglio affrettarsi. Una rete di controllo capta i missili al momento del lancio e la sirena fa scattare gli oltre 20.000 abitanti della cittadina poco lontana da Gaza a qualunque ora del giorno e della notte. Comunque, [8] non c’è traffico. I bambini non parlano, sanno di cosa si tratta, non fanno domande, attraversano la strada. Non [9] comprendono bene ma conoscono quella plumbea sensazione di pericolo che appesantisce l’aria. E sanno che non c’è tempo per le domande e per i capricci. A pochi ma lunghissimi metri nel centro ricreativo, qualcosa di simile ad una bocciofila-bunker, il personale addetto ha già avviato al rifugio interno pressoché tutti gli [10] anziani. Molti di loro sono sopravvissuti alla Shoa, hanno una gran voglia di vivere. Troppo lontano, per lo meno dieci metri. Per il piccolo rifugio alla fermata dell’autobus non c’è problema, pochi passi ancora. Proprio qui a Sderot c’è uno dei centri più importanti per la cura dei traumi psicologici [11] causati dalla guerra e dal terrorismo. Gli esperti del centro aiutano anche altre realtà nel mondo, luoghi in cui genocidi e guerre hanno devastato la stabilità mentale delle vittime, o meglio di chi è sopravvissuto, magari al proprio figlio. Un pensiero alle persone care, agli amici, alla famiglia. Le [12] strade sono deserte l’allarme riempie il vuoto assordante della mancanza di rumori della quotidianità. La voglia di vivere si trasforma in disperato istinto di sopravvivenza. Nell’Ipod della ragazzina in attesa di entrare nel rifugio, le note rock melodiche Mabul Heavy - Rain (pioggia pesante) di Keren [13] Peles si scontrano con l’assordante suono dell’allarme rosso. La locandina del concerto troneggia nel diario rosa. ‘Appuntamento a Sderock, We’ll Rock you in the Red Zone’, c’è scritto in inglese. L’indirizzo non è riportato ma qui lo conoscono tutti, è nel club bunker. L’inconfondibile porticina verde [14] da cui si viene catapultati come Alice nel Paese delle Meraviglie nella scena sotterranea, underground, della cultura israeliana. Un posto tranquillo, completamente anti-missile, l’unica scocciatura è entrare e uscire dal locale. Bisogna organizzarsi in modo da non creare file all’esterno. ‘Domani sera [15] che mi metto?’ sembra pensare l’adolescente annoiata mentre la voce di Keren Peles si disperde. I missili si avvicinano, inesorabilmente pronti a colpire. La donna conta i bambini nel rifugio, ci sono tutti? Gli anziani sono abituati a mettersi in salvo, collaborano attivamente con il personale. Sedici [16] lunghissimi secondi tra il suono dell’allarme e l’arrivo della pioggia di kassam. L’esplosione scuote i nervi, riempiendo l’aria di proiettili fai-da-te, rabbia e odio. A volte seguono le urla strazianti e la piacevole sensazione di essere ancora vivi diventa senso di colpa per chi, forse, non c’è più.

©©Valentina Cosimati

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8.7.10

 

Sole timido e sole pigro Sun shy and lazy sun

From Visions, Rome Province * Visioni, Provincia di Roma
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5.7.10

 

Visioni, Orbetello e Argentario, Toscana * Visions, Orbetello e Argentario, Toscana

Orbetello e Argentario * Visioni, Toscana * Visions, Tuscany

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