8.5.07
"Oramai solo i filosofi possono salvare la politica"
Intervista a Giacomo Marramao, tra gli ideatori del Festival della filosofia che inizia oggi a Roma. Fino a domenica si alterneranno incontri e proiezioni con ospiti italiani e internazionali, da Marc Augé a Peter Sloterdijk e Barbara Duden.
“La politica deve ricominciare ad essere prassi di cambiamento improntata ad un progetto di società, deve tornare ad essere un orizzonte di senso della vita individuale e collettiva delle persone, altrimenti questo spazio sarà occupato da pratiche identitarie che usano le religioni come mezzi di aggregazione trasformandole in pericolosi surrogati delle ideologie che generano violenze e fondamentalismi”. Giacomo Marramao - docente di filosofia politica dell'università Roma Tre - è tra gli ideatori del del Festival della filosofia che inizia oggi a Roma e si protrarrà fino a domenica e con queste parole ne spiega il tema conduttore, quello dei "confini", appunto. La rassegna - organizzata dall’associazione Multiversum e dalla rivista MicroMega - si terrà all’Auditorium – Parco della Musica. Conterà tra gli ospiti studiosi internazionali come Barbara Duden, Jean Luc Nancy, Marc Augé, Peter Sloterdijk, Fernando Savater, Edouard Glissant, Hanif Kureishi, Manuel Cruz. Per gli italiani, invece, ci saranno - tra gli altri - Remo Bodei, Sergio Givone, franco Volpi, Piergiorgio Odifreddi, Giulio Giorello, Edoardo Boncinelli.
Si parlerà di filosofia, ma anche di politica, che in Italia - dice Marramao - è diventata “una metafora di Porta a Porta”. Bisogna creare uno spazio pubblico aperto e ‘multiversale’ in cui le differenze vengano accolte come ricchezza nella loro "interazione costruttiva tra frontiere portatili", non confinate in ghetti contigui o azzerate in nome di un’ideale cittadinanza universalistica.
Come può la politica superare la voglia di identità che oggi è così preponderante?
Per superare la crisi identitaria dell’universalismo omologante occorre che la politica smetta di essere unicamente una pura pratica di accordi interni ad un ceto politico separato. L’universalismo omologante è la vera causa del conflitto identitario che contraddistingue le società globalizzate, un concetto che dà luogo alla logica del potere chiuso in una torre che sempre di più somiglia a quella di Babele. L’universale va ridefinito come spazio aperto, disponibile ad accogliere ospiti inattesi
Il rispetto delle differenze, può essere una ricchezza nel mondo globalizzato o si rischia di arrivare a dei conflitti insanabili nel breve periodo?
La mia chiave di lettura dei nuovi conflitti globali parte da un’analisi strutturale della globalizzazione come fenomeno di uniformazione e omologazione, che ha due tratti fondamentali. Quello della finanziarizzazione del mercato capitalistico globale e quella dell’uniformazione dovuta alle tecnologie post elettroniche del tempo reale. La saldatura di questi due elementi determina una compressione enorme del mondo, dando luogo ad una compulsiva vicinanza delle popolazioni dovuta alla moltiplicazione dei fenomeni migratori coattivi. In questo mondo estremamente compresso si delineano delle nuove linee di frontiera che sono determinate dal bisogno di differenziarsi e salvaguardare la propria storia.
Dove si sposta oggi la frontiera, cosa delimita i confini?
La frontiera da statica è diventata portatile. Oggi non ci sono più confini geopolitici, si sono spostati all’interno delle metropoli. Il fondamentalismo, infatti, viene dall’Islam delle diaspore
Le frontiere portatili, le persone, stanno ridefinendo il concetto stesso di identità nazionale?
Lo stato nazione è un concetto troppo grande per venire a capo delle istanze che emergono dal locale e troppo piccolo per le sfide globali. Le identità nazionali e le identità compatte sono delle ‘comunità immaginate’, che hanno a che fare con il bisogno di immaginare che la storia sia omogenea. Non c’è identità senza differenza, la differenza è il presupposto di ogni identità e non viceversa, come ha sempre sostenuto la metafisica che ha dominato l’Occidente. Le frontiere portatili, la cui identità è definita nella relazione costante, interagiscono in un processo multilaterale all’interno dello spazio pubblico ridisegnando i confini identitari e di appartenenza.
Con l’apertura delle frontiere politiche, la caduta di alcuni muri, come quello di Berlino, e la costruzione di altri, come quello di Via Anelli a Padova, si parla di identità europea, ma esiste?
C’è una difficoltà a creare una sfera pubblica europea. L’Unione Europea è andata avanti in una logica di ricomposizione degli stati su base economico-monetaria, ma questi stati sono riluttanti ad agire sul piano politico. La mancanza di una lingua unica è un problema sormontabile, rimane la necessità di azione ad un livello più profondo di quello economico. Ora che i due modelli principali di integrazione che l’Europa ha prodotto nel corso dei decenni, quello assimilazionista francese e il londonistan, sono falliti dando vita a delle profonde spaccature all’interno delle società, è possibile immaginare un’identità europea basata sull’integrazione mediante il riconoscimento dell’identità come realtà contingente e aperta, definita nella relazione e nel divenire storico. Si può pensare ad un’Europa dell’universalismo della differenza, in cui il criterio che prevale non è quello dell’omologazione ma quello che evidenzia i tratti che si differenziano perché vede in questi tratti dei momenti di ricchezza incommensurabile.
by Valentina Cosimati
published on Liberazione del 9 maggio 2007
photo credits Armando Rotoletti
Si parlerà di filosofia, ma anche di politica, che in Italia - dice Marramao - è diventata “una metafora di Porta a Porta”. Bisogna creare uno spazio pubblico aperto e ‘multiversale’ in cui le differenze vengano accolte come ricchezza nella loro "interazione costruttiva tra frontiere portatili", non confinate in ghetti contigui o azzerate in nome di un’ideale cittadinanza universalistica.
Come può la politica superare la voglia di identità che oggi è così preponderante?
Per superare la crisi identitaria dell’universalismo omologante occorre che la politica smetta di essere unicamente una pura pratica di accordi interni ad un ceto politico separato. L’universalismo omologante è la vera causa del conflitto identitario che contraddistingue le società globalizzate, un concetto che dà luogo alla logica del potere chiuso in una torre che sempre di più somiglia a quella di Babele. L’universale va ridefinito come spazio aperto, disponibile ad accogliere ospiti inattesi
Il rispetto delle differenze, può essere una ricchezza nel mondo globalizzato o si rischia di arrivare a dei conflitti insanabili nel breve periodo?
La mia chiave di lettura dei nuovi conflitti globali parte da un’analisi strutturale della globalizzazione come fenomeno di uniformazione e omologazione, che ha due tratti fondamentali. Quello della finanziarizzazione del mercato capitalistico globale e quella dell’uniformazione dovuta alle tecnologie post elettroniche del tempo reale. La saldatura di questi due elementi determina una compressione enorme del mondo, dando luogo ad una compulsiva vicinanza delle popolazioni dovuta alla moltiplicazione dei fenomeni migratori coattivi. In questo mondo estremamente compresso si delineano delle nuove linee di frontiera che sono determinate dal bisogno di differenziarsi e salvaguardare la propria storia.
Dove si sposta oggi la frontiera, cosa delimita i confini?
La frontiera da statica è diventata portatile. Oggi non ci sono più confini geopolitici, si sono spostati all’interno delle metropoli. Il fondamentalismo, infatti, viene dall’Islam delle diaspore
Le frontiere portatili, le persone, stanno ridefinendo il concetto stesso di identità nazionale?
Lo stato nazione è un concetto troppo grande per venire a capo delle istanze che emergono dal locale e troppo piccolo per le sfide globali. Le identità nazionali e le identità compatte sono delle ‘comunità immaginate’, che hanno a che fare con il bisogno di immaginare che la storia sia omogenea. Non c’è identità senza differenza, la differenza è il presupposto di ogni identità e non viceversa, come ha sempre sostenuto la metafisica che ha dominato l’Occidente. Le frontiere portatili, la cui identità è definita nella relazione costante, interagiscono in un processo multilaterale all’interno dello spazio pubblico ridisegnando i confini identitari e di appartenenza.
Con l’apertura delle frontiere politiche, la caduta di alcuni muri, come quello di Berlino, e la costruzione di altri, come quello di Via Anelli a Padova, si parla di identità europea, ma esiste?
C’è una difficoltà a creare una sfera pubblica europea. L’Unione Europea è andata avanti in una logica di ricomposizione degli stati su base economico-monetaria, ma questi stati sono riluttanti ad agire sul piano politico. La mancanza di una lingua unica è un problema sormontabile, rimane la necessità di azione ad un livello più profondo di quello economico. Ora che i due modelli principali di integrazione che l’Europa ha prodotto nel corso dei decenni, quello assimilazionista francese e il londonistan, sono falliti dando vita a delle profonde spaccature all’interno delle società, è possibile immaginare un’identità europea basata sull’integrazione mediante il riconoscimento dell’identità come realtà contingente e aperta, definita nella relazione e nel divenire storico. Si può pensare ad un’Europa dell’universalismo della differenza, in cui il criterio che prevale non è quello dell’omologazione ma quello che evidenzia i tratti che si differenziano perché vede in questi tratti dei momenti di ricchezza incommensurabile.
by Valentina Cosimati
published on Liberazione del 9 maggio 2007
photo credits Armando Rotoletti
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