7.5.06
Sarajevo, due artisti nella città che rinasce
Anur Hadziomerspahic e Andrej Djerkovic, due amici segnati e divisi dalla guerra in Bosnia, che oggi si ritrovano nel mondo dell'arte e della cultura
di Valentina Cosimati - Sarajevo
“La guerra è difficile da capire. Se sei fuori la vedi meglio, ma se sei coinvolto non capisci fino a che una granata non ti scoppia nel giardino davanti casa; semplicemente non te ne rendi conto perché è una cosa talmente lontana dalla vita ‘normale’ che non puoi capire, anche se il telegiornale te lo dice, non ti rendi conto, non fa parte della tua vita”.
A parlare è Anur Hadziomerspahic che oggi ha trentaquattro anni, si definisce ‘artvertiser/pubblicitartista’, ateo di origini musulmane è uno degli artisti più interessanti della scena sarajevese contemporanea. La sua vita è stata indelebilmente segnata da una guerra cui ha partecipato suo malgrado come rifugiato.
“Quando ho sentito le prime esplosioni e una granata è caduta vicino alla casa dei miei genitori ho capito che dovevo scappare – ricorda –ero sicuro di non voler morire e di non voler uccidere, certo non avevo idea che l’assedio ad una città europea potesse durare quattro anni. Pensavo che tutto si sarebbe concluso in pochi giorni per cui sono andato via con una valigia leggera”.
Così nel 1992 si trasferisce a Milano per qualche settimana, lasciando dietro di sé la sua famiglia, i suoi amici e compagni di scuola, tra cui l’artista concettuale Andrej Djerkovic, bosniaco-croato.
Le storie dei due amici si itrecciano e si dividono come in una danza in un costante gioco di specchi, si mescolano tra le risate in un caffè e le grida soffocate dell’orrore; frequentano la stessa scuola hanno la testa piena di arte, progetti impossibili, idee e musica, si ritrovano nei vivacissimi caffè, vanno ai concerti rock o alle affollatissime serate di poesia che animavano la vita della ‘Parigi dei Balcani.
La capitale bosniaca infatti in quel momento era un’esplosione di vitalità creativa, le olimpiadi invernali del 1984 le avevano dato una grande visibilità internazionale, le riforme per il passaggio dal comunismo ‘illuminato’ di Tito alla democrazia erano in corso, c’era un clima generale di benessere, tutti avevano un lavoro, vacanze garantite e un po’ di soldi in tasca, le gallerie d’arte contemporanea e i movimenti underground e di sperimentazione si moltiplicavano in una città che è storicamente un mosaico unico di culture, religioni e tradizioni.
Anur è il figlio di uno dei massimi animatori della vita culturale sarajevese, Enver Hadziomerspahic, organizzatore delle cerimonie di apertura e chiusura dei giochi olimpici e direttore del Centro della Gioventù, la Dom Mladih, che si trova a poche centinaia di metri dall’Obala Art Centra dove registi e attori in erba si confrontano con testi e pellicole da tutto il mondo, ma anche dove Izeta Gradevic apre spazi di sperimentazione per installazioni e azioni artistiche sul modello delle avanguardie newyorkesi.
Sarajevo è un vero e proprio mondo a parte, dove Oriente e Occidente si incontrano e confrontano in uno scambio costante e costruttivo, una capitale multiculturale nel cuore della Jugoslavia e dei Balcani.
Una città in cui persone di diverse culture, tradizioni e religioni sono abituate a vivere fianco a fianco “non c’era differenza – spiega il pubblicitartista – tra musulmani, cattolici, ortodossi, ebrei. Questo è stato reso possibile anche da anni di ateismo e socialismo e dalle politiche di Tito su fratellanza e unità. Ora so riconoscere l’etnia di una persona dal nome, che bravo, eh? ho imparato qualcosa”.
Anur è sempre stato ‘immerso’ nell’arte contemporanea, ha avuto modo di incontrare ‘in salotto’ i grandi nomi dell’arte e della cultura; molte avanguardie sono nate sotto i suoi occhi, crescendo ha saputo far tesoro di queste esperienze e ha sviluppato una sensibilità artistica non comune.
Ci mette un po’ a capire che la brutalità della violenza e della paura sta distruggendo il suo mondo.
A Milano i suoi amici ascoltano le stesse canzoni, si vestono allo stesso modo, più o meno si comportano come i suoi amici sarajevesi anche se qui la differenza di censo è ancora una realtà.
Andrej è affascinato dal mondo dell’arte contemporanea e ci si sa muovere con agilità, ma proviene da una famiglia ‘normale’, ha un’intelligenza vivace e irriverente, conosce i linguaggi della periferia e del centro cittadino, ha un grande senso dell’umorismo e la capacità di essere amico di tutti.
Al contrario del suo amico, capisce fin troppo bene cosa stava accadendo: il suo quartiere, o meglio il suo palazzo condominiale è sulla linea del fronte.
“Abito a Dobrinja – racconta - è una zona di periferia, con palazzi condominiali. Il mio palazzo era sulla linea del fronte, mi hanno sparato addosso dall’inizio alla fine, non potevo abbandonare la mia casa: se io e gli altri l’avessimo fatto le milizie avrebbero avuto una gran parte di Sarajevo. Eravamo quasi totalmente isolati, si poteva andare in centro solo durante i cessate il fuoco. Mi hanno ferito due volte e ho capito che una delle poche cose che fa più male delle pene d’amore è una ferita d’arma da fuoco nella pancia. Non nego di aver anche ucciso, ma era una questione di sopravvivenza e di resistenza”.
Durante la guerra rimane nel suo quartiere e resiste quattro anni, apre un centro culturale per i bambini di Dobrinja con computer, libri e qualunque cosa riesca a trovare, è costretto a parlare con suo padre attraverso i container e sviluppa un interesse particolare per le città divise – oggetto tra l’altro di una serie di suoi lavori DVD.
In pieno assedio riesce ad esibire a Gaza, in Palestina “è stata la mia unica inaugurazione – ricorda - a cui non sono riuscito ad andare, era un lavoro sui proiettili DUM DUM il cui uso sarebbe proibito; sono fatti per esplodere nel corpo umano in tante piccole schegge e creare il maggior numero di ferite possibile, un po’ come le idee che esplodono in testa durante la guerra, è un lavoro che è andato in giro per l’Europa e ho poi completato a Sarajevo in occasione del cinquantenario dell’Intifada”; altre città che ama sono Belfast, la ‘capitale’ del Kurdistan turco Diyarbakir, Trieste e Rijeka/Fiume.
Il suo sguardo è sempre stato scanzonato ma durante l’assedio sviluppa una particolare sensibilità per l’ironia paradossale della propaganda e spara a zero (a colpi di arte) sulla realtà che lo circonda.
Mentre a Sarajevo si lotta contro la morte, la distruzione e l’annichilimento a Milano i giorni si trasformano in anni, nessuno interviene e l’assedio prosegue, la Bosnia è devastata dalla pulizia etnica nell’indifferenza generale, Anur ha il tempo di completare gli studi all’Istituto di design e diplomarsi all’Accademia di Belle Arti Brera.
In Italia elabora dei lavori di straordinaria efficacia come Condizione Umana, una serie di poster e volantini di fortissimo impatto che ha anche distribuito nei supermercati. “Non dico delle cose intelligenti o molto profonde – spiega Anur - non dico delle cose che altri non sanno, dico le cose che pensano tanti e credo che ci sia tanta gente che quando vede questi lavori possa pensare ‘ma allora non sono solo’. Ad esempio in Alienazione [uno dei lavori di Condizione Umana, ndr] ho semplicemente preso un ombelico, che è il punto di collegamento tra l’essere umano e le sue radici, e l’ho moltiplicato sul corpo nudo di un giovane uomo; così sembra che questa persona abbia una malattia della pelle contagiosa, ma l’alienazione è una malattia e anche molto grave. In Persone della stessa serie ho preso due polli ‘a busto’ [quelli che si comprano già confezionati, senza testa ed eviscerati, ndr] e li ho fotografati in una posizione che evoca l’atto amatorio: nella società occidentale si è arrivati al consumismo delle relazioni d’amore, il corpo è uno strumento e ci si organizza la vita in modo da essere il miglior prodotto sul mercato”.
Le opere di Anur sono spietate e lui riesce a colpire chi guarda con le tecniche ammiccanti della propaganda.
“Uso i mezzi della pubblicità – racconta - per promuovere l’arte, dagli stand con le hostess nei supermercati ai cartelloni pubblicitari fino ai siti web e alle insegne luminose. Uso tutti i vari mezzi della pubblicità per promuovere dei messaggi un po’ più umani. Io faccio pubblicità, vivo di pubblicità e la conosco molto bene”.
Anur è sofisticato ed efficace, la sua arte sembra nascere da un incontro costante tra mondi, legge l’Ovest attraverso l’Est e viceversa, in un mix unico e straordinario.
“Non faccio nulla di particolare – gli fa eco Andrej – guardo solo la realtà da un altro punto di vista. Collego immagini, parole, suoni. Un’opera può nascere da una canzone, come ad esempio Beautiful Occupation, un’istallazione che ho fatto a Diyarbakir, la ‘capitale’ del Kurdistan turco. Mi sono ispirato alla canzone Beautiful Occupation [Bella Occupazione], composta dal gruppo britannico Travis in reazione alla guerra in Iraq, e ho riempito una stanza con una quantità di arbre magique con la bandiera americana stampata sopra. L’immagine della bandiera moltiplicata è visivamente aggressiva e in più rimaneva anche il profumo della vaniglia che da gradevole essenza per togliere i cattivi odori diventava insopportabile. È un modo come un altro per far riflettere sul concetto di ‘forze di occupazione’ che ora è diventato ‘forze di liberazione’”.
La violenza delle immagini di Anur si svela dietro la patina del perbenismo, come nella campagna ‘Identify!’, dei cartelloni pubblicitari che danno il benevenuto nella capitale bosniaca.
Si tratta di foto con indumenti e oggetti di tendenza che fanno pensare al lancio di qualche nuova collezione, una bella pubblicità che colpisce l’attenzione all’istante. Guardando il nome del brand si legge ‘Srebrenica – Identification Project’, è un’opera che fa gelare il sangue nelle vene, le immagini del genocidio esplodono nella mente e si rimane a guardare i jeans strappati, le magliette macchiate di terra e sangue con la statua della libertà stampata sopra, le scarpe da ginnastica ‘vissute’ fino a capire che quegli oggetti fotografati ed esibiti con un linguaggio così familiare e ammiccante sono frammenti di un recente passato, tracce di persone di cui forse non si conoscerà mai l’identità e la storia.
Sono gli oggetti trovati nelle fosse comuni in cui sono stati gettati i corpi degli oltre 8000 uomini massacrati poco più di dieci anni fa.
Con Identify! Anur è in grado di far capire in un batter di ciglia cosa vuol dire genocidio in Europa, svela lo stupore di fronte alla forza distruttrice della banalità del male.
Andrej ha invece un rapporto più stretto con il territorio o i territori su cui si muove, le sue opere spesso coinvolgono i cinque sensi e nascono da interazioni con le persone, come ad esempio le due campagne su Srebrenica Drina/Dimenticare Uccide e Missing [in italiano si traduce sia come ‘mancanza’ e ‘dispersi’].
Nella prima ha stampato sui pacchetti di sigarette ‘Drina’ (marca jugoslava con il nome del fiume considerato il confine naturale tra l’Impero Romano d’Oriente e quello d’Occidente, nonché moneta di scambio durante l’assedio) la scritta ‘Dimenticare uccide’ al posto di ‘Fumare uccide’ e le ha distribuite in vari paesi europei.
Nella seconda ha scritto in braille i nomi dei dispersi di Srebrenica: visto che i parenti delle vittime non possono neanche piangere i loro cari, per ricordarne la memoria è necessario distorcere il gesto della preghiera musulmana e mandare un’ultima carezza alla memoria delle vittime e di coloro di cui ancora non si sa nulla. In queste opere, sviluppate insieme alle madri di Srebrenica, guardare non basta: si deve ‘toccare con mano’ la tragedia.
“Ora – spiega Anur - soprattutto in Bosnia, l’arte funziona come ‘pronto soccorso’. L’arte di solito non dovrebbe trattare dei problemi del quotidiano, questo riduce l’artista, lo costringe all’interno di limiti temporali e territoriali, di confine, ma mentre prima ci si poteva permettere di fare arte concettuale insieme a Sol Le Witt, ora soprattutto qui l’arte non si può permettere questo. La cornice è meno larga, funziona un po’ come per il blues che ha tre accordi: all’interno di questi accordi hai una quantità di variazioni incredibili, anche questa è una sfida”.
Ora Anur vive e lavora a Sarajevo e sta ricostruendo quello che altri hanno distrutto, attraverso le sue opere di dialogo tra i due mondi. Andrej ha varie nazionalità, vive tra la Svizzera e la Bosnia Erzegovina e ha fatto dell’arte concettuale la sua arma politica di resistenza alla banalità e all’ipocrisia.
Pubblicato su Liberazione della Domenica, 7 maggio 2006
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