14.4.10

 

Un sogno di libertà



Emir ha deciso di tentare il colpo grosso.

Alto, bello, con gli occhi mobili, le mani da giocatore di basket. La vita è stata contraddittoria con lui e ne porta ancora i segni addosso, li porterà per sempre. Ha il carattere e la stoffa del vincente ed è l'orgoglio di sua madre.
Lo ascolto un po' stupita in quella piovosa e grigia giornata olandese, ha l'aria trasognata, come se riuscisse a visualizzare il futuro di cui mi parla. Lo guardo, un metro e novantotto, gambe lunghe muscolose e forti, spalle larghe, sembra che gli abbiano sparato una cannonata in pieno petto, era troppo giovane per farsi ammazzare.

A Srebrenica lui e suo padre si erano salutati con uno sguardo pieno di amore.

E la cannonata gli era scoppiata nel petto, silenziosa, eterna, tra lo sterno e lo stomaco.

Il segno è rimasto nelle ossa, nella pelle, una cicatrice emozionale per contestare il teorema di Andrej per cui l'unica cosa che farebbe più male dei sentimenti sarebbe una scheggia di granata nella pancia.

Mi sono persa, lui continua a parlarmi della famiglia ideale.

Deve essersi accorto che lo guardavo con aria interrogativa, non è il tipo di persona che si apre facilmente al racconto e la mia disattenzione non aveva scusanti plausibili se non che sentivo una nota di falsità nella sua voce, non era quello l'oggetto del suo discorso e stava allungando il brodo, il suo modo per testare se poteva fidarsi dell'interlocutore.

Un grande affetto mi aveva scaldato il cuore la prima volta che l'avevo incontrato, ci siamo capiti immediatamente e non superiamo mai il limite del non detto.

Sappiamo e tanto basta, il tacito accordo tra noi è io non chiedo tu non rispondi, stavolta, però, ho chiesto e lui ha risposto, sempre non chiedendo e non rispondendo. “Ti sei innamorato, eh?”. “Sì”. Una confessione in piena regola, d'altronde da giorni era inquieto, mangiava nervosamente e ogni volta che gli chiedevo qualcosa diventava evasivo.

Orgoglioso com'era aspettava pazientemente e sapeva che prima o poi l'avrei capito.

Era grande e grosso, aveva salvato la pelle sua e di altre persone anche in mezzo al fuoco incrociato con un coraggio e una capacità straordinarie sapeva affrontare pericoli e difficoltà che a chiunque sarebbero sembrati insormontabili e, come tutti, aveva una paura fottuta dei suoi sentimenti.

“Comunque non era di questo che volevo parlarti”, disse riprendendo il suo piglio determinato e sicuro. Un'idea gli girava in testa da un po' e aveva deciso di raccontarmela.

Eravamo lì, seduti sulla scalinata davanti al tribunale contro i crimini di guerra, intorno a noi giornalisti indaffarati a narrare orrori inenarrabili, guardie borbottanti per la nostra presenza, giuristi in toghe e parrucche con facce tetre e occhi intrisi di cinismo, reporter di guerra abituati a vendere genocidi sensazionali ad un pubblico assetato di storie commoventi, testimoni sopravvissuti a crimini contro l'umanità impauriti da quegli stessi ricordi che avrebbero inchiodato sanguinari miliziani e banalissimi gerarchi corrotti da bramosie di potere prodotti da propagande di odio e violenze inaccettabili, lobbysti di organizzazioni non governative impegnati a far rispettare trattati fondamentali, impiegati di quelle organizzazioni internazionali assorti nel loro codice di sigle per poter passare di grado il più in fretta possibile. E lui lì, in tutto quel trambusto di emozioni contrastanti a chiacchierare non della sua brillante carriera come giornalista di punta e futuro portavoce del primo ministro del suo paese, no, per Emir erano dettagli, l'insalatina verde nella sua vita riempita a forza di emozioni da dimenticare, il contorno necessario a ciò che per lui era davvero importante.

Era ora di tornare in aula per il processo.

Emir non accennò più al discorso e le nostre vite presero direzioni diverse.

Lo avrei incontrato più volte negli anni a venire, per qualche strano motivo faceva parte della mia vita molto più di quanto si possa immaginare.

Il destino aveva unito i binari delle nostre esistenze in un fredda giornata della primavera sarajevese.

Il ghiaccio quella mattina illuminava i germogli che si stiracchiavano risvegliando gli alberi e gli uccellini dal torpore invernale.

Nonostante mesi di pratica non avevo ancora imparato a muovermi con agilità e, intabarrata nel mio piumino modello mi-sono-alzata-dal-letto-anche-se-non-si-vede, colbacco, sciarpona, guanti e scarponcini all condition gear con carro armato all terrain, guardavo con una punta di ammirazione meravigliata le ragazze cristiane, ebree, musulmane, in tacchi a spillo e capelli al vento che, con ostentata disinvoltura, volteggiavano per le vie cittadine al ritmo di musiche da mercato, richiami di muezzin, suoni di campane e vociare allegro.

Attraverso Piazza della Liberazione cercando di non scivolare sulle partite di scacchi giganti con la stessa delicatezza di una palla da bowling in un negozio di swarosky, mentre ragazzini che bombardano di neve fresca gli autobus gialli su cui campeggia la scritta 'Japan' vengono rincorsi a velocità supersonica da agilissimi poliziotti cittadini che però non riescono mai ad acciuffarli.

Raggiungo la Dom Armjie, quell'inconfondibile brivido lungo la schiena sempre uguale a se stesso, e poi ecco il mio luogo di salvezza; la caldissima e super affollata caffetteria, libreria, casa editrice BuyBook, gioiello di civiltà austroungarica in chiave ultramoderna in cui è possibile assaporare veri cappuccini di evidente scuola italiana, non quelle imitazioni che si trovano all'estero, oltre a caffè per qualunque gusto e centrifugati rigorosamente bio. Il tutto immerso in una nube di fumo, chiacchiere nelle lingue più disparate, opere d'arte concettuali e fermenti creativi tipici di un paese in piena fase di ricostruzione.

Faccio appena in tempo a scrollarmi dalle ossa il vento gelido che cristallizza goccioline di sudore e a riprendere un aspetto civile prima di incontrare il gruppo di colleghi in cerca di storie da far rimbalzare nei vari angoli del pianeta. Mi convincono ad addentrarmi nella parte interna, si prepara un evento memorabile.

Ho sempre nutrito un certo scetticismo per le zone in cui il conflitto si è manifestato nelle forme più atroci, per un misto di diffidenza, paura e rispetto della memoria. Forse anche per una certa pigrizia intellettuale o perché, in fondo, quell'atmosfera dove la voglia di vivere si percepisce a pelle è un piacere insolito, un lusso emozionale in cui mi piace avvolgermi.
Stavolta le scuse che tengo pronte in queste occasioni si sciolgono come la neve che fa schiudere i germogli.

Mi imbarco con la comitiva in un indimenticabile viaggio nella meraviglia della normalità in un paese in cui tutto è sopra le righe.

Ore che sembrano non passare mai tra ingarbugliate stradine di montagna col fondo ghiacciato, contornate da strapiombanti pendii e pianure ricolme di mine antiuomo tarate sul peso di un bimbo di quattro chili, ci conducono in un una piccola città che non oserei definire ridente.

Le facciate dei palazzi decorate da raffiche di granate e i volti degli adulti, giovani uomini e donne cresciuti troppo in fretta, rivelano una desolante tenacia di vivere nonostante le distruzioni di vite vissute sullo sfondo di destini intrecciati in un altrove tanto lontano da risultare tangibile.

Un vociare di ragazzini festanti distrae i miei neri pensieri color della pece e la desolazione svanisce come per incanto. Non c'è tempo di chiedersi il perché di tutta questa allegria, io e i colleghi incontrati da BuyBook veniamo quasi investiti da un'attività frenetica degna delle più affollate peak hours nel centro di New York o Londra.

Operai corrono con carpenterie varie, insegnanti dal perentorio tono balcanico cercano di tenere buone scalmanate scolaresche, carovane di adolescenti vestiti a festa si spostano in gruppi che farebbero gola a qualsiasi pubblicitario, intere famigliole si muovono a grappoli, politicanti e manager urlano indicazioni cercando di sovrastare il vociare convulso, camioncini improbabili affollano lo spazio sonoro con un concerto di clacson che sembra di essere a Roma quando piove, e relative imprecazioni, richiami di venditori ambulanti e gruppi di musicanti klezmer e gitani.

Per un attimo, quel frammento in cui posso pensare, ho la sensazione di essere stata catapulta a mia insaputa nel set di un cevapi western, nel bel mezzo di una coloratissima ballata balcanica.

Una concitata guida locale inviata dalle autorità ci scorta, si fa per dire visto che lei si destreggia a velocità olimpica con tacchi vertiginosi su un terreno difficile da percorrere anche con anfibi corazzati mentre noi arranchiamo verso una costruzione in cemento armato, il luogo da cui e per il quale sembra originarsi tutta quella gran confusione.

M'illumino d'immenso alla vista di un volto conosciuto.

Emir è lì, a dirigere un'orchestra di batticuori ed emozioni.

Gli occhi raggianti controllano i più piccoli movimenti della massa vociante con assoluta concentrazione. Vado spedita verso di lui, mi fa cenno di aspettare e mi indica una porta a vetri, un caffè, ampio, accogliente, caldo, in cui l'aroma di dolci si mescola a raffinate note jazz. Dopo il rituale di svestizione, colbacco, piumino, guanti, sciarpone, un paio di strati di maglioni, sistemo sul tavolino il blocchetto per gli appunti, penne, matite, pacchetto di fazzolettini di carta. Sorseggio un cappuccino e cerco di capire il motivo di tanta euforia. Nel caffè ovviamente si parlotta animatamente, commenti al grande evento di cui Emir sembra essere il regista.

La mia scarsa conoscenza della lingua mi preclude la comprensione di discussioni tanto partecipate, percepisco l'elettricità nell'aria ma dovrò attendere ancora l'arrivo del mio amico per capirci qualcosa in più. Quando qualcuno entra gli avventori cominciano a fare domande e ascoltano con crescente interesse sviluppi della situazione, se le notizie non risultano sufficienti un gruppetto viene mandato in esplorazione e torna con aggiornamenti soppesati e valutati dagli altri con esclamazioni, risate, raffiche di reazioni.

L'intera nazione sembra essersi riversata in quel piccolo paese per assistere al grande evento.

È evidente che non si tratta di qualche commemorazione ufficiale, né tantomeno della visita di qualche personaggio istituzionale, neanche il presidente più potente del mondo potrebbe dar vita ad una tale ridda di commenti e soprattutto ad un coinvolgimento emotivo tanto forte da parte della gente. Dev'esser qualcosa di più delicato, di più importante. Continuo a sorseggiare il cappuccino ormai tiepido quando si apre un varco ed entra la star del momento tra l'ammirazione generale. Emir mi raggiunge nell'improvviso silenzio, ci abbracciamo da buoni amici e, con i quasi due metri di altezza, mi solleva in una dimostrazione tutta mediterranea di affetto e soddisfazione per la mia presenza lì quel giorno.
Rispetto le formalità e tengo a freno la mia curiosità finché non si conclude l'aggiornamento sulle condizioni di salute, lavorative e sentimentali dei nostri comuni amici.

Leggo gioia nei suoi occhi e questo mi infonde sicurezza, un brivido di profonda felicità attraversa il mio corpo, rendendomi partecipe di quella euforia che fa scricchiolare per un lungo momento il tacito accordo del non chiedo non rispondi.

Divertito, mi guarda, comprende lo sforzo e apprezza ma decide anche di tendere la corda della mia curiosità, di titillarla un po' quasi si trattasse di un arco nell'attimo immediatamente precedente allo scoccare del dardo.
“Un'idea mi girava in testa da un po'” mi dice testando le mie capacità mnemoniche, erano trascorsi alcuni anni da quel giorno sulle scalinate del tribunale contro i crimini di guerra ma neanche dopo millenni avrei potuto dimenticare l'intensità di quella sua espressione.

Il suo sogno Emir non me lo aveva raccontato, io gli avevo creduto e oggi stava per svelarmelo in tutta la sua semplice meraviglia. Quando si ha a che fare con criminali che finiranno sui libri di storia ci si accorge di una caratteristica distintiva della malvagità e degli orrori: la banalità del male. Anche se i 'cattivi' vengono disegnati come figure intriganti e un genocidio può smuovere coscienze nell'universo creato, il male, l'attuazione e la progettazione sadica delle più efferate atrocità è sempre, costantemente e quasi scientificamente banale, e forse è proprio la banalità di tali azioni che ci sconvolge al punto da inorridire e farci girare lo sguardo da un'altra parte.

Il lampo di determinazione degli occhi del mio amico quel giorno mi fecero capire la differenza tra la banalità e la meraviglia, tra la sete di vendetta e la voglia di rivalsa, tra la cupidigia e la voglia di vivere per realizzare i propri sogni.

“Sono qui”, mi mordo le labbra prima di chiedergli qual è questa idea che lo ha tenuto in attività per anni, ha fatto mobilitare la popolazione di un intero paese, la stampa internazionale, ha creato una ventata di fiducia e allegria in giovani vecchi e bambini e ci manca che davvero arrivi anche il presidente della più potente nazione del pianeta! La sfida ce l'ha nel sangue, avrei dovuto immaginare che si sarebbe alzato di scatto per lasciare che nel caffè riprendesse con tono crescente il chiacchierio.

Mi rivesto della mia armatura da freddo balcanico, ovviamente mi avvio verso la costruzione in cemento armato a prova di granate, missili e quant'altro l'industria bellica è capace di immaginare.

La città, perché adesso sembra proprio una città e non un piccolo paese, è una girandola multicolore.

Entro e mi trovo immersa nel sogno del mio amico: una modernissima palestra da basket, un centro polifunzionale con piscina coperta e pista di pattinaggio a rotelle in cui si riversano festanti gruppi di ragazzini, alcuni di loro hanno avuto degli incontri ravvicinati con le sofisticate mine prodotte in Italia e corrono con protesi, altri si spostano in poltrone a ruote.

Con un lancio da tre punti Emir inaugura l'inizio di una nuova avventura e per la seconda volta lo ringrazio per avermi fatto comprendere la differenza tra banalità e normalità.

Ora il nome di quella piccola città si troverà spesso nelle cronache sportive, probabilmente giovani campioni andranno in NBA e un giorno non lontano i più grandi giocatori del mondo potrebbero sfidarsi proprio lì, in quella piccola città dove un mio amico testardo ha voluto realizzare un sogno di libertà.

E chissà che i ragazzi le cui vite sono state bruscamente e banalmente destinate ad altri mondi non stiano anche loro a fare il tifo per la squadra locale.


(la storia è vera, i personaggi anche, qualche dettaglio un po'
©© Valentina Cosimati

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