3.11.05

 

Sarajevo, Festival Mess ricorda Srebrenica

A dieci anni dall'assedio si è conclusa nella capitale bosniaca la storica kermesse teatrale, giunta alla sua 45° edizione

Valentina Cosimati
Sarajevo

Shakespeare, la memoria del genocidio a Srebrenica e in Rwanda, Peter Brook, il teatro sperimentale fiammingo e iraniano e gli ufo come logo e potenziali interlocutori: questi alcuni degli elementi che hanno caratterizzato la quarantacinquesima edizione della più longeva manifestazione culturale sarajevese, il Festival internazionale di Teatro Mess, conclusasi da pochi giorni.

«Il nostro scopo primario - si legge nel programma - è quello di celebrare la diversità come la cosa migliore e più bella del Pianeta, e di condividerla con chiunque, siano essi umani o non umani».

Il festival è un evento immancabile nella capitale bosniaca per i sarajevesi ed è anche una straordinaria finestra sulla vita di una città da secoli crocevia di culture e religioni. Quest'anno, Sarajevo festeggia il decennale della fine di un dilaniante assedio durato ben quattro anni, durante i quali lo spirito della città è stato mantenuto vivo da artisti, intellettuali e gente comune che hanno voluto continuare a vivere una illusione di straordinaria normalità nonostante la pulizia etnica e i cecchini nelle strade. Il Mess non ha mai smesso di mettere in scena produzioni teatrali, tra cui un altissimo Aspettando Godot a lume di candela con la regia di Susan Sontag e Haris Pasovic nel 1993, e negli anni ha saputo rinnovarsi e ritrovare l'entusiasmo del pubblico.

«La prima edizione - ci racconta il trentaduenne produttore esecutivo Nihad Kresevljakovic - era molto diversa da quella attuale. L'ideatore e primo direttore Jurislav Korenic lo aveva strutturato come un festival di teatro sperimentale aperto a tutte le nuove tendenze e particolarmente alla produzione regionale "off". Oggi stiamo presentando anche produzioni più importanti che girano nei circuiti più tradizionali, ma sempre tenendo a mente che il teatro è il luogo della fantasia ed è uno straordinario mezzo di comunicazione che va oltre ogni barriera, dai confini geografici a quelli mentali».

Il programma è molto variegato nonostante le gravi difficoltà economiche e logistiche che gli organizzatori debbono fronteggiare. Si apre e si chiude con un Amleto, in versione contemporanea e semisperimentale quello serbo-montenegrino di apertura e ambientato ad Istanbul durante l'impero Ottomano quello bosniaco di chiusura. Peter Brook e il Theatre des Bouffes du Nord hanno presentato Le Grand Inquisiteur/Il grande inquisitore ambientato nella Spagna del sedicesimo secolo, mentre l'iraniano Attila Pessyani e il Teatro Bazi di Teheran hanno messo in scena la sequenza The Mute Who Was Dreamed/Sogno di una muta e Bitter as Honey/Amaro come il miele, spettacoli a metà strada tra l'analisi delle intime passioni umane e il teatro dell'assurdo. Alcune interessanti coproduzioni, tra cui Timone of Athens/Timone di Atene di Shakespeare in tre lingue (italiano, turco e macedone) con pannelli per la traduzione portati dagli attori in scena, regia del croato Branko Brezovec e coproduzione di Narodni Teatar Bitola/Teatro nazionale macedone di Bitola, Turski Teatar Skopje/Teatro macedone turco di Skopje e Teatro Nove di Sesto Fiorentino di Barbara Nativi e Silvano Panisci.

Uno degli elementi più interessanti del festival è però il pubblico. «Sarajevo è una piazza difficile - ammette Nihad M. Kresevljakovic - e il pubblico è estremamente esigente. Durante l'assedio le persone riempivano gli spazi teatrali, subito dopo la guerra ho personalmente assistito a spettacoli in cui il teatro si è svuotato nel giro di 15 minuti e in generale qui le persone sono abituate ad alzarsi e andare via se la performance non è convincente. Quest'anno per esempio il pubblico ha fatto la fila per vedere lo spettacolo sperimentale di Jan Fabre L'angelo della morte con interventi video di William Forsythe. Ad alcuni è piaciuto moltissimo l'Amleto di Haris Pasovic, che è uno dei più rinomati e apprezzati registi della ex-Jugoslavia ed è stato direttore artistico del Mess durante l'assedio, e altri hanno lanciato critiche feroci».

A Sarajevo le persone vivono il teatro con passione, non è un qualcosa di astratto, ma fa parte della quotidianità. «Anche per questo motivo - prosegue il produttore esecutivo - riserviamo un'attenzione particolare alla memoria del genocidio o della "pulizia etnica", ossia dell'uccisione di persone in base al nome che portano, che per noi è una realtà concreta».

Quest'anno ricorre il decennale del massacro di circa 8.000 uomini e ragazzi musulmani a Srebrenica e la maggior parte delle esibizioni e delle manifestazioni nel modulo della memoria sono dedicate a questo capitolo oscuro della recente storia europea, ma non manca una performance olandese General D sul genocidio rwandese.

«Una delle difficoltà più grandi - ci racconta Andrej Djerkovic, autore dell'azione artistica Missing (Dispersi) nella Galleria Nazionale Karabit - è la mancanza di contatto. Per questo ho avuto l'idea di produrre un libro in braille con i nomi delle persone disperse, il libro è racchiuso all'interno di una federa per cuscini, la stessa che viene usata dalla madri delle vittime ogni mese per manifestare il dolore e la mancanza di un corpo da seppellire. Il braille è la lingua dei ciechi, le persone devono toccare fisicamente il libro per poter leggere i nomi delle persone scomparse, come un'ultima carezza. Moltissime persone non hanno avuto la possibilità non solo di salutare i propri familiari, ma ancora oggi non possono seppellire nulla, perché la memoria fisica di quelle persone uccise - il corpo - non si trova. Solo poche settimane fa è stata scoperta una nuova fossa comune di persone massacrate a Srebrenica».

Pubblicato su Liberazione del 3 novembre 2005

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